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A proposito di garanzie

Come ci ricorda Morya Longo sul Sole 24Ore di oggi quanto ai Confidi, “peggiora la redditività. Peggiora il cost income. Peggiora la sostenibilità economica. Peggiora l’efficienza operativa. Peggiorano un po’ tutti i parametri di bilancio. Tranne due: la solvibilità (cioè la quantità di disponibilità liquide per far fronte agli impegni nel breve termine) e il total capital ratio (cioè il rapporto tra patrimonio e il valore delle attività ponderate per i rischi). È questa la fotografia scattata sul mondo italiano dei Confidi dal Comitato Torino Finanza, organo della Camera di commercio di Torino, nel rapporto 2022 che sarà pubblicato oggi: un settore in difficoltà da anni, che è stato colpito – negli ultimi due – anche dalla “concorrenza” delle garanzie pubbliche per il Covid e dalla sempre minore capacità di erogare credito da parte delle grandi banche alle micro imprese.

Be’, l’incipit non è certamente dei più incoraggianti: il mondo dei Confidi è da tempo in cerca di una sua identità dopo che Giulio Tremonti, con l’istituzione del Fondo Centrale di Garanzia presso MCC-Banca per il Mezzogiorno s.p.a., nel 2009 aveva di fatto “affondato” la validità di ogni altro tipo di garanzia con quella, a prima richiesta e senza eccezioni, rilasciata dallo Stato. Intento encomiabile e che ha permesso a molte imprese di sopravvivere nella temperie della grande crisi 2008-2018, con consolidamenti, allungamenti delle scadenze, moratorie varie e assortite. La garanzia del Fondo, di fatto rilasciata a fronte di criteri che ampliavano la “bancabilità” dell’impresa proprio in presenza di difficoltà, è risultata così attrattiva da piegare i comportamenti bancari a ciò che il Fondo chiede e chiedeva (per esempio l’ignobile motivazione della richiesta: “per liquidità”, che non si riesce a pensionare, nonostante sia ormai chiaro che confondere sintomi e cause non è il miglior modo di procedere nel credito): a tacere della durata delle forme tecniche, tutte adeguatesi a ciò che il FCG desiderava, per finire alla grande corsa agli sportelli e alla liquidità verificatasi in piena pandemia, nei primi mesi del 2020, con l’aberrante risultato di vedere prestiti richiesti da chi non ne aveva bisogno semplicemente per tenere la liquidità lì, a disposizione, casomai dovesse servire.

Nella riunione torinese forse se ne è parlato e forse no; ma sarebbe bene ricordarsi della corsa di tanti Confidi, grandi e piccoli a iscriversi al Registro di cui al 106 del TUB, per ottenere quella patente di affidabilità che le ispezioni di Bankitalia avrebbero, in seguito, ridotto in gran numero (solo per memoria, ricordiamo il Confidi di una grande città capoluogo di Regione, inibito nell’assumere ulteriore rischio da parte di Bankitalia).

I Confidi, nati per ragioni di mutualità, si sono progressivamente trasformati in strumenti di intervento pubblico, tanto è vero che la vera alimentazione dei loro capitali, anche per fare fronte agli impegni derivanti dalle garanzie assunte, è stata di matrice pubblica (Regioni e altri Enti locali). Ma se l’Ente pubblico, per definizione, lo Stato, interviene, non ce n’è più per nessuno: e non c’è manuale di Credit Risk Mitigation che non inviti a utilizzare questo tipo di garanzie al posto di qualunque altra, garanzie reali comprese.

Forse aveva ragione qualcuno (il dott. Ripani e il sottoscritto) che in un Convegno a Napoli circa 20 anni fa, affermavamo, dopo uno studio rivolto ai Confidi della Campania, che sarebbe stato meglio che, come in Francia e Giappone, questi istituti fossero diretta emanazione dell’Ente pubblico e non, come talvolta è accaduto, mangiatoie più o meno profittevoli.

Per la cronaca: quella volta siamo usciti dalla porta posteriore.