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Chi non lavora, neppure mangi.
San Paolo non aveva certamente in mente i referendum che si sono celebrati domenica scorsa, tantomeno la questione dei salari, che in Italia sono talvolta così ridicolmente e tragicamente bassi da spingere -quasi- a cambiare la seconda lettera ai Tessalonicesi aggiungendo “e chi lavora cerchi anche di riuscire a mangiare”.
Ma la questione lavoro, compreso il cercarlo senza sognare di non fare fatica, di non passare dall’insegnamento e dalla condivisione, di averne o non averne a cuore il senso e significato, rimane centrale nel dibattito sull’economia del nostro Paese, anche senza tirare fuori il tema della produttività del lavoro stesso, che ci porterebbe troppo lontano ma che piace molto agli economisti.
In tutto questo, è realistico e non banale constatare che anche il mercato del lavoro ha una sua divisione (chi fa che cosa) con domanda e offerta relative; si veda il triste meme che circola in questi giorni sui social dove un tizio che ha studiato lettere è disoccupato, un diplomato all’istituto tecnico lavora e gli sta per staccare la luce.
Lasciamo per un attimo da parte la questione della domanda, questa settimana parliamo dell’offerta, di coloro che danno lavoro, perché da due fatti, assai compenetrati tra loro, nasce la riflessione che vi propongo.
Un amico imprenditore mi propone da mesi il tema della successione nell’impresa, la sua impresa e inevitabilmente, anche il senso di fare impresa; impresa che va molto bene e che vede una compagine sociale tipicamente italiana, ovvero familiare, ma con i figli che hanno in mente di fare tutt’altro.
Così, anzitutto rispettando la libertà dei figli, che sono nostri ma non ci appartengono, decide di fare una singolare convention, alla quale ho avuto l’onore di partecipare nel weekend appena trascorso. Io per commentare i dati di bilancio insieme a coloro che avevano contribuito a realizzarli, un caro amico che si è ritirato dall’impresa in modo sorprendente per parlare del senso del lavoro. Dopo aver visitato -giovedì- un’azienda che a Rimini è di esempio per il clima che si vive internamente, un’esperienza assolutamente positiva, venerdì abbiamo parlato del senso del lavoro, ascoltando qualcuno che dal lavoro si è –teoricamente– ritirato, ma che continua a fare di tutto di più, soprattutto aiutando altre imprese a crescere e divenire migliori.
È il “come” si è ritirato il punto interessante: socio fondatore, insieme ad altri, di un’azienda cresciuta fino a giungere a fatturati milionari, riceve un’offerta da una multinazionale per cedere il pacchetto azionario. Facile, redditizio, un’uscita di scena maestosa, che molti vorrebbero. Certo la tua impresa diventa la tesserina di un puzzle molto più grande, chi ci lavora sarà una matricola delle migliaia di occupati nel mondo, ma chissenefrega, tu sei milionario.
E invece…invece tutti i soci decidono che, in qualche modo, l’impresa non è la loro, e capiscono che il tema non è la presa di profitto, ma il senso di quello che hanno costruito fino a quel momento. E l’azienda passa di mano per una cifra molto più bassa ma, soprattutto, la prendono in mano i migliori tra coloro che fino a quel momento ci avevano lavorato.
Non si tratta, evidentemente, di una questione che riguardi la branca delle valutazioni d’azienda, si tratta di qualcosa di molto più profondo: si tratta della concezione che hai dell’azienda, come qualcosa che, in finale, non ti appartiene. Puoi averla fondata, fatta crescere e brillare, ma non è la tua e la devi lasciare migliore di come l’hai trovata.
Ripensiamoci, riguarda la vita di tutti, perché riguarda il lavoro di tutti.
Buon lavoro.