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Chiudere sportelli, robotizzare i servizi: formare persone?

Come ricorda Alessandro Graziani su IlSole24Ore del 23 febbraio scorso “nei prossimi tre anni le maggiori banche italiane puntano a chiudere altre 2.500 filiali, portando il numero complessivo ampiamente sotto le 20.000 unità. Dieci anni fa, nel 2012, erano circa 33.000, mentre alla fine del 2020 erano già scese a 23.480 (secondo i dati di Bankitalia).  Per il 2021 non esistono ancora dati ufficiali cumulativi, ma solamente Intesa Sanpaolo ne ha chiuse 450 ed è ragionevole supporre che il totale dei tagli agli sportelli abbia superato ampiamente quota 1.000. (…) Nel prossimo triennio – anche stando solo ai piani industriali finora approvati da Intesa, UniCredit, BancoBpm e Bnl-Bnp Paribas – ne sono previsti almeno altre 1.643. A cui si aggiungeranno quelli che inevitabilmente arriveranno quando a giugno saranno presentati i nuovi piani industriali di Bper, di Credit Agricole Italia e soprattutto di Mps che dovrebbero portare il saldo totale delle chiusure programmate nei dintorni delle 2.500 unità (che vanno ad aggiungersi alle 2.000-2.500 già chiuse nel biennio 2020-2021).”

Il presidio fisico, nonostante qualche –apparente– manifestazione di intenti differente, continua ad essere considerato come un puro e semplice costo operativo, e la pandemia ha accelerato questa percezione nei manager bancari, grandi e piccoli, alle prese con il problema del cost/income ratio e dell’incubo della riduzione dei costi operativi, ovvero il numeratore, visto che il denominatore, ovvero i ricavi, non si riesce ad innalzare. Ciò che fa riflettere, in questo processo che appare “normale”, perlomeno rispetto alle previsioni, poiché si sapeva che il settore finanziario e assicurativo sarebbe stato pesantemente impattato dalla digitalizzazione, è che si proceda verso l’hard fintech verosimilmente senza un progetto, senza comunicare, effettivamente, nulla alla clientela (anche perché i boomers che in banca ci vanno è ora che vadano in pensione e i millennials in banca proprio non ci entrano) se non indirettamente attraverso la presentazione di piani industriali i cui effetti Alessandro Graziani ha efficacemente riassunto nell’articolo di cui sopra. Dunque, la banca di relazione sarebbe morta, a meno che per relazione non vogliamo intendere quella che i clienti (che persone sono e tali rimangono) instaurano con l’intelligenza artificiale, magari conversativa; solo a pensare alla preparazione e alla cultura d’impresa di tanti piccoli e medi imprenditori viene da sorridere, constatando come tutto ciò appaia una pretesa rispetto a bisogni e necessità difficilmente canalizzabili e standardizzabili in maniera digitale. Nella divisione del lavoro del mercato del credito, le grandi banche, che hanno scelto da tempo di non voler avere a che fare con le Pmi, il problema lo hanno risolto con la digitalizzazione sempre più spinta. Quello stesso problema, invece, si pone, con tutta evidenza, per le Pmi e per le banche che con esse hanno maggiormente a che fare, le banche del territorio, le banche locali o di prossimità, per le quali la preparazione del personale è il punto dolente del processo di assimilazione di una “forte cultura del rischio di credito”, come è scritto negli Orientamenti EBA in materia di LOM. E poiché la relazione di clientela si realizza solo se vi sono due parti, il tema della cultura d’impresa e quello, ad essa legatissimo, della cultura del rischio di credito dovrebbe diventare il tema dominante nelle preoccupazioni degli uffici risorse umane e/o formazione.

Parliamone: ma, soprattutto, cominciamo a fare qualcosa.