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Dove eravamo rimasti?

Ah, sì, alla Tod’s che abbandona la Borsa Italiana, al cosiddetto de-listing.

Circa un mese fa IlSole24Ore, commentando il fenomeno a firma di Alessandro Graziani, lo descriveva come una scelta:

  • non limitata alla sola Italia;
  • compiuta più da grandi imprese che non da piccole e medie, le quali, anzi, tendono più di prima al to go to public;
  • causata, tra le altre cose, dalla maggiore aggressività e convenienza (?) dei private equity investor.

 

Il contenuto dell’articolo, involontariamente, “svelava”, se così si può dire, il grande segreto di Pulcinella nascosto dietro il luogo comune, tipico di ogni prospetto, ovvero “ci quotiamo per raccogliere capitali per lo sviluppo”, solfa ripetuta in più di un libro, mantra bocconiano, absit iniuria verbis, per decenni, specie in certa pubblicistica di una trentina di anni fa, ma non solo.

Una ricerca accademica sulle IPO svolta nel 2011 dal sottoscritto, insieme a uno dei miei migliori laureati di sempre -ricerca purtroppo non pubblicata- già allora mostrava che gli scopi dichiarati differiscono notevolmente dalle ragioni reali per le quali si effettuano determinate operazioni. E tra questi scopi, individuato da Graziani, stava, per esempio, la necessità di pubblicizzare il proprio marchio attraverso la quotazione presso quei mercati di maggiore interesse per lo sviluppo delle vendite.

Così Prada a Hong-Kong, Luxottica a New York prima che a Milano e via discorrendo.

Quello che non si dice mai è che la quotazione consente ai soci senior non solo di fare cassa ma, soprattutto, di poter pervenire a mutamenti negli assetti proprietari senza che gli azionisti di controllo debbano tirare fuori un centesimo, lasciando al mercato il compito di assorbire pacchetti azionari che non si vuole più detenere perché è il mercato che paga il recesso. A tacere dell’ipotesi, lecita, per carità, di voler semplicemente e banalamente capitalizzare gli sforzi imprenditoriali, facendo cassa e proponendo al mercato piani di sviluppo e di investimento che non sempre si avvereranno.

Un’ultima questione: se è vero che il capitale di rischio è da sempre la risorsa finanziaria più costosa, non c’è dubbio che il motivo sia legato non solo al fatto che, appunto, di capitale di rischio si tratta, ma che il rischio è legato sia all’incertezza circa il ritorno sul capitale, sia talvolta alle perdite in conto capitale (chiedere azionisti Aeffe spa).

Se si riflette su questo punto, al netto del fatto che non esiste un tariffario per gli interventi dei venture capitalist e dei private equity investor, costoro dovrebbero aspettarsi ritorni ancora più elevati di quelli che la Borsa può offrire. Quella stessa Borsa dalla quale le aziende si allontanano perché, forse, hanno capito, dopo 60 anni, quello che dicevano Modigliani e Miller: l’impresa vale, o non vale, indipendentemente da come si finanzia.

Ci ritorneremo. Anche perché, tra le altre cose, che a quotarsi in questo momento, siano maggiormente i piccoli e su mercati non regolamentati, dovrebbe fare riflettere più di un intermediario creditizio.