Quanto dovrebbero pesare le scelte di un governo in un settore, quello bancario, dove a…
Quo vadis? I dilemmi del nostro tempo.
Con un minore senso del drammatico rispetto ai combattimenti in technicolor evocati dal cinema (grazie al Cielo), ma con il peso di una domanda che resta come macigno sulle coscienze di tutti coloro che dell’economia sono protagonisti, imprese, banche, persone, istituzioni pubbliche, associazioni etc…, arriva, dal 23 al 26 maggio a Trento il Festival dell’Economia, con il titolo che si può vedere nell’incipit di questa newsletter. Su IlSole24Ore di domenica (ma presumo anche sul sito del Festival stesso) è possibile consultare l’elenco dei partecipanti, davvero numerosi e, soprattutto, prestigiosi –ben 5 premi Nobel tra cui Yunus- provenienti da ogni parte del mondo e in particolare, da ogni settore dell’economia, o quasi. Quasi. C’è solo una banca e non è quella che mi aspettavo, a parte Cassa Depositi e Prestiti (che non è una banca): Fondazione Caritro, che a sua volta non è e non può essere una banca. C’è di tutto, da Accenture allo Studio Bonelli-Erede, da Terna a ITAS assicurazioni, ma non c’è una banca che sia una.
Dubito fortemente che le banche italiane abbiano mai fatto una sessione di studi (penso ai CdA, ma anche a molti dirigenti) su quanto dice Schumpeter riguardo alle banche come agenti della contabilità sociale.
Sono invece abbastanza certo che l’orgia di utili portati a casa nell’ultimo triennio (si fanno utili anche con i tassi bassi, vero?) abbia messo la sordina non solo a certe questioni esistenziali, ma soprattutto che abbiano chiarito una cosa: che le banche sono tutte uguali e che l’unico scopo sociale che hanno è fare qualche soldo in più da dare alle fondazioni -oramai le fanno anche le Bcc, per meglio astrarsi dal compito di agenti della contabilità sociale– oltre agli utili smisurati con i quali riescono a coprire al 100% il credito deteriorato.
E poi? Già, e poi?
Leggo racconti su Linkedin (per esempio degli amici di Emilbanca o de “La Bcc”) che mi fanno ancora sperare bene, ma capisco che si tratta di iniziative tuttora legate alla buona volontà e ai valori del localismo -quello vero, quello autentico- che non hanno respiro nazionale. Vorrei essere smentito, ma certe pubblicità mi fanno venire in mente solo slogan generici, improntati ad una vicinanza fisica ma che rischia di rimanere davvero astratta. Qualcuno qualche giorno fa mi chiedeva cosa pensassi riguardo all’evoluzione del Credito Cooperativo in Italia: ho risposto che temevo che sarebbe diventato, prima o poi, qualcosa di molto simile al Crédit Agricole, solo con meno respiro internazionale. Insomma, una HSBC de’ noantri.
Spero di sbagliarmi, lo spero tanto.