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Se la Great Resignation arriva anche in banca.

Sul 24Ore Plus di qualche sabato fa (https://24plus.ilsole24ore.com/art/AEQrLzLB) si è affrontato un tema sempre meno di nicchia e sempre più destinato a far pensare e far riflettere, quello noto come Great Resignation, le grandi dimissioni. Quel fenomeno per cui, a prescindere dalla possibilità, se non dall’incertezza assoluta, di trovare un altro lavoro, ci si dimette da quello che si sta facendo perché insoddisfatti. Insoddisfatti dello stipendio in sé, e questa potrebbe essere un’interpretazione limitante (in Italia gli stipendi sono fin troppo bassi e le forme attraverso le quali si bistratta il lavoro dei giovani assai ampie, ma il fenomeno di cui ci stiamo occupando investe anche Paesi non afflitti dalla questione).

Ma anche insoddisfatti del tempo a disposizione per stare con la famiglia, del tempo non dedicato al lavoro come di quello, talvolta troppo, viceversa ad esso dedicato (basti vedere una puntata della serie “Diavoli” su Sky per capire come la finanza sia al contempo il terreno di coltura della Great Resignation ma anche la sublimazione di tutto quello che è stato pensato fino ad ora ovvero: più lavoro, più mi pagano, più crescono responsabilità e potere, più conto socialmente. Poi alla fine, o mi fanno dimettere o mi dimetto io…).

È come se il mondo del lavoro, che fa parte della realtà, si fosse improvvisamente reso conto che c’è una realtà fuori, fatta di vite famigliari, di gravidanze (vedi sempre “Diavoli”), di sorprese inaspettate, di modi di vedere la vita che non sono esattamente coincidenti con il lavoro stesso.

Il lavoro, dapprima concepito come “necessario” al mantenimento di sé e dei propri cari, diventa qualcosa che vuole un significato un po’ più ampio e meno rinchiuso nella famosa frase “si lavora per vivere e non si vive per lavorare”, talmente scontata da essere ignorata nella sua profonda verità.

Nel frattempo, è arrivata la pandemia a fare esplodere la santabarbara dei problemi e delle questioni che la digitalizzazione, con meno violenza, stava solo mettendo impietosamente alla luce. E lo smart working, che per molti è stato occasione di sperimentare un modo di lavorare inatteso (per qualcuno che non lo aveva mai visto, l’unico modo di lavorare) non consente di “tenere insieme” esigenze divenute sempre più forti di tempo libero, di spese familiari, di tempo necessario a raggiungere il luogo di lavoro: parlando con più di un capo del personale, soprattutto in banca, ho già ascoltato la frase: “Prevediamo un 30/40% di dimissioni tra coloro che devono rientrare dallo smart working.”

Ecco, la banca: con l’incubo dapprima dei tassi bassi (ma non ho mai visto bilanci così belli in banca come ai tempi dei tassi sottozero), e poi con il perenne imperativo di ridurre i costi operativi e migliorare il cost-income ratio. Naturalmente riducendo i costi e innalzando a qualunque costo i ricavi, anche se la cosa comporta essere poco più che dei distributori di prodotti fabbricati da altri -le polizze, i mutui, i prestiti personali- diventando poco più che dei commerciali.

Non è una semplice questione di business model, che pure devi raccontare alla BCE e rispetto al quale devi essere coerente. Il lavoro del futuro, nelle imprese o in banca, o sarà qualificato o non sarà, anche al netto di quanto la digitalizzazione possa nel frattempo generare in termini di saving, di maggiore efficienza, di maggiore velocità nel compiere operazioni che prima erano più lente. Se la Great Resignation arriva in banca, tra le altre cose, ci arriva per le corte vedute di chi, molto spesso, pensa al lavoro, proprio e degli altri, in termini unicamente di potere, di capacità di mostrare bilanci talmente alleggeriti di costi da far credere che sia possibile fare fatturati gratis, che non esistono. Così come non esistono i pasti gratis, nemmeno le prestazioni di lavoro.

Pensiamoci.