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La valutazione dell’azienda nelle operazioni straordinarie

Un’azienda coinvolta in operazioni straordinarie cambia pelle o in qualche modo è “costretta” a farlo da circostanze sopravvenute che impongono un mutamento spesso di ampia portata.

Tralasciando gli aspetti fiscali, sicuramente importanti e non trascurabili soprattutto nel nostro Paese, la valutazione dell’azienda coinvolta in operazioni straordinarie diviene un tema di grande interesse che coinvolge futuri o potenziali stakeholder (si pensi non solo a fusioni e acquisizioni, ma anche alla possibile quotazione in borsa, agli investitori etc…), unitamente agli attuali soci e azionisti.

Sul tema si sono espressi moltissimi studiosi e non è certamente questa la sede per cimentarsi in nuove argomentazioni sul tema, salvo rammentare al nostro lettore qualche punto:

  • Il valore, ossia la determinazione del processo di valutazione dell’azienda, non è il prezzo finale o il corrispettivo al quale sarà compravenduta, fusa, incorporata o quotata.
  • La valutazione può essere effettuata in molteplici maniere ma la differenza fondamentale è data dalle prospettive di sviluppo e dall’esistenza di un piano strategico pluriennale.
  • In assenza di un business plan non può che fondarsi su criteri prevalentemente di tipo patrimoniale.
  • Qualora siano presenti piani di sviluppo seri e credibili, deve tenere conto anche dei flussi di cassa attesi e della prevedibile evoluzione della gestione.

Guardando anche agli aspetti sopracitati, si comprende che il tema della valutazione dell’azienda (non solo nelle operazioni straordinarie) non può essere risolto mediante la semplice applicazione di criteri di liquidazione, poiché presuppongono il venir meno della continuità aziendale. Come non si può pensare che un’operazione straordinaria rappresenti tout-court il modo per valorizzare determinati asset talvolta detenuti in eccesso o per valori incongrui (ad esempio gli immobili).

Il processo di valutazione dell’azienda: le basi


Nel processo di valutazione dell’azienda occorre anzitutto tenere presente le posizioni nel frattempo acquisite sul mercato, la penetrazione commerciale e quindi la rete distributiva dei prodotti e/o servizi: in altre parole il ruolo di valore-guida nel processo non può che essere assunto dal fatturato, sia in termini di serie storiche, sia in termini di probabile evoluzione futura. Poiché anche qualora si utilizzi il metodo dei multipli, questo si basa sul fatturato o su valori derivati da esso (Ebitda, Mol o Ebit che dir si voglia) nella riclassificazione del bilancio.

Vi sono d’altra parte nicchie di mercato saldamente presidiate da competitor per le quali l’azienda deve essere valutata in funzione di criteri extra-contabili capaci tenere conto della posizione acquisita e del ruolo assunto sul mercato di riferimento, nonché della clientela specificamente servita.

È un errore, per esempio, ipotizzare come vantaggiosa l’acquisizione di un’azienda il cui valore sia tutto compreso nel suo brand e nel suo rappresentare un’eccellenza in quella specifica nicchia di mercato, se i piani futuri sono di incorporarla facendone sparire il brand: celebre negli anni ’90 la storia di una grande azienda della GDO non-food (generalista nel settore abbigliamento e articoli sportivi per la precisione) cui non giovò affatto l’acquisizione di un’azienda leader nel mercato di nicchia della vendita e distribuzione di biciclette.

Molto probabilmente l’azienda acquisita fu valutata correttamente (e non certamente sottovalutata) ma l’errore, contemporaneo al processo di valutazione, fu di immaginare che i fatturati si sarebbero semplicemente sommati, senza tenere conto dei due diversi mercati di riferimento: generalista l’uno, fortemente specializzato l’altro.

La determinazione dell’avviamento


Fortemente connesso al tema della valutazione dell’azienda è il tema della determinazione dell’avviamento (se positivo goodwill, se negativo badwill), ovvero la quantificazione della capacità dell’azienda di generare un’extra-reddito (o nel caso di badwill, di generare perdite operative) attraverso il capitale investito, più elevato di quanto ci si aspetterebbe dal ritorno di un investimento con analogo grado di rischio.

Anche in questo caso si tratta di comprendere quanta parte del ROI sia frutto di una posizione stabilmente acquisita sul mercato e destinata a durare per un tempo relativamente lungo, oppure se dipenda da politiche commerciali particolarmente aggressive che abbassano le barriere all’entrata e che modificano il rapporto con la clientela.

Cosa comprende la valutazione?


A chiusura di queste forzatamente brevi considerazioni sul tema della valutazione dell’azienda si deve rammentare quanto sia pericoloso incorporare nella valutazione stessa elementi fortemente incerti o legati a percezioni più che a stime, a distorsioni più che alla capacità di creare valore per l’azienda. Non tanto per chi vende, quanto piuttosto per chi acquista.

Si pensi in particolare alla stima del valore di un immobile: molto spesso dovrebbe “uscire” dal processo in quanto non effettivamente in grado di offrire alcun contributo alla generazione di flussi di cassa futuri. Al contrario viene molto spesso considerato quale parte fondamentale e decisiva del valore finale.

Si tratta in effetti di comprendere quale sia la capacità dell’azienda di generare valore e cassa mediante la globalità dei suoi asset: processi di valutazione fondati su criteri differenti rischiano di essere fuorvianti e di condurre a derive problematiche e pericolose.