Raramente mi sono trovato, andando con la memoria a ritroso nel tempo, nell’incertezza così pervasiva…

Pausa pranzo.
Lewis Hamilton, il peggiore acquisto che potesse fare la scuderia Ferrari per evidenziare di avere dei problemi alla macchina, anche se grazie al cielo le Ferrari i miliardari continuano a comprarle, ha affermato che solo in Italia esiste una pausa per il pranzo: dice, più o meno, il pilota –vado a cercare i miei meccanici, trovo che non c’è nessuno e chiedo “Dove sono tutti?” ricevendo come risposta “Sono in pausa pranzo.-”
A parte andare a vedere i risultati economici della Ferrari S.p.A., se il nostro lavorasse dietro a una scrivania e non dentro l’abitacolo di una F1 tra poco si dovrebbe stupire dell’arrivo di agosto, con le attività quasi sospese, la gente in ferie, le città vuote (ah no, piene, c’è l’overtourism) e le spiagge brulicanti di folla.
Naturalmente anche Lewis Hamilton si nutre, anche lui va in ferie (e che ferie): probabilmente se andasse a pranzo con i suoi meccanici scoprirebbe le delizie della cucina emiliana, ma “Il Cannibale” pensa solo a lavorare. Lui vuole (vorrebbe) vincere, il problema sta nella macchina che gli fanno guidare.
Ci interessano i commenti sportivi? Sì, ma non in questo luogo. Ma la storia di Hamilton e della Ferrari mi fa inevitabilmente pensare alla vicenda del business model e dei manager che lo portano avanti: ma anche alle tante classifiche, stilate da vari quotidiani e riviste specializzati che spiegano in quali posti si lavora meglio.
Il business model, di cui fino all’entrata in vigore degli Orientamenti EBA-LOM si parlava solo nelle business school o all’università e forse nemmeno in tutte: era un tema di gestione aziendale, di economia delle imprese o di tecnica e gestione delle imprese, non di tecnica bancaria e non era certamente inserito nei documenti di cui deve essere obbligatoriamente composto il corredo informativo che deve accompagnare una pratica di fido. Eppure il business model, ovvero quello che fai, per chi lo fai e come lo fai -e quindi anche come tratti i lavoratori- è la cosa che conta più di tutte.
Nelle aziende dove si lavora bene si fanno anche molti profitti; se tu in un posto vuoi andarci a lavorare vuol dire che in quel posto si preoccupano del tuo benessere, che significa tante cose ma una più di tutte.
Il profitto non solo è compatibile con salari adeguati, ma è proprio dall’uso intelligente del capitale umano che escono fuori certi risultati. Non so come siano i conti di chi ha licenziato un’operaia cui non veniva assegnato abbastanza tempo per i propri bisogni fisiologici: ma è un business model che non mi piace e che non sarà reso migliore dall’intelligenza artificiale.
Un’ultima cosa: se come afferma il Sole24Ore del 9 luglio, 6 giovani su 10 si dichiarano disposti ad andare all’estero per lavorare, forse qualche domanda i nostri industriali dovrebbero farsela.
Anche quelli che continuano a ripetere che piccolo è bello, ma non crescono mai.
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