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La ristrutturazione aziendale e la costruzione dei piani di risanamento

La ristrutturazione aziendale è divenuta parola familiare nel lessico del rapporto banca-impresa e nell’ambito professionale nel 2005, con la prima legge di riforma della Legge Fallimentare risalente al 1942 e firmata da Rocco. Con la suddetta si stabilisce, perlomeno nello spirito, che scopo delle procedure fallimentari non è la soddisfazione dei creditori in ottemperanza al principio della par condicio, quanto piuttosto la contemporanea possibilità di salvare l’impresa, o anche solo una parte di essa, cercando di farne proseguire l’attività.

Tra i vari strumenti che la novità legislativa propone agli operatori vi è senza dubbio la possibilità di presentare piani di risanamento, di portata più o meno estesa, volti a tentare la prosecuzione dell’attività d’impresa o comunque a salvaguardarne l’unicità, i valori che la sua storia esprime, il know how e le competenze. Nulla di simile al processo che, a metà degli anni ’70, venne reso celebre dalla parola “riconversione produttiva o riconversione industriale” e che interessò perlopiù imprese in difficoltà aventi rilievo sociale tale da non poter essere semplicemente fatte fallire.

Se da una parte dobbiamo ringraziare l’uscita dello Stato dal mondo delle imprese, dall’altra è opportuno sottolineare che il concetto di ristrutturazione, nonostante i molti anni trascorsi dalla prima approvazione della riforma della Legge Fallimentare, non è ancora entrato nelle corde e nel modus operandi degli imprenditori e delle banche con le quali essi lavorano e che, molto spesso, sono gli unici veri creditori dell’impresa.

Il problema di moratorie troppo permissive


A essere sinceri la ristrutturazione aziendale e la costruzione dei piani di risanamento entravano o sarebbero dovuti entrare nella prassi delle imprese in difficoltà all’alba del decennio della Grande Crisi quando il MEF, l’ABI e le associazioni di categoria delle imprese siglavano nel 2009 il c.d. “Accordo comune”, poi rinnovato in successive edizioni (comprese quelle per fare fronte ai vari sismi che hanno colpito il nostro Paese). Un accordo firmato con l’obiettivo di “aspettare” le imprese, spostando in avanti i tempi di rimborso dei debiti, talvolta (come nella Provincia Autonoma di Trento) anche abbuonando una parte degli interessi mediante contributi in conto interessi (e quindi in conto esercizio).

Tratto comune a tutti gli accordi sopracitati e alle concessioni bancarie che li seguivano nella ristrutturazione del debito era la natura eminentemente finanziaria dell’iniziativa. Solo la prima stesura dell’accordo comune prevedeva che il debitore aderente alla moratoria dovesse dimostrare grazie alla stessa di essere in grado di ripristinare la capacità di reddito e la capacità restitutiva nella normale operatività aziendale mediante opportuni interventi correttivi. È noto a tutti e non solo a chi lavora in banca che la moratoria è stata concessa su larga scala semplicemente sulla base del principio che si doveva aiutare le PMI a non fallire e che nessun piano di risanamento è stato attuato e soprattutto neppure concepito.

Lo stesso errore è stato commesso con le moratorie successive (che ora la normativa di BCE e di Bankitalia denominano misure di “forbearance”) del tutto prive del requisito sostanziale che dovrebbe possedere un processo di ristrutturazione aziendale, ovvero la discontinuità rispetto al passato che, evidentemente, non può più essere portato avanti in quanto mostra i segni di debolezza che hanno condotto alla crisi.

La necessità di un piano di ristrutturazione aziendale serio e credibile


Solo piani di risanamento seri e credibili, che non siano scritti sulla sabbia del “wishful thinking”, possono portare alla ristrutturazione del debito perché non si limitano a modificare la composizione delle fonti di finanziamento ma entrano a incidere sul rapporto prezzi-costi, sulla formula competitiva e sulle risorse impiegate.

È del tutto evidente che non può essere considerata sufficiente per il risanamento la vendita di un asset importante, anche immobiliare, se tale operazione non viene accompagnata da profondi e incisivi interventi sulla formula competitiva, ovvero sulle modalità stesse che l’impresa adotta per stare sul mercato.

Nessun piano di tale genere può avere dignità ai fini del processo di risanamento se non interviene sulle cause della crisi, che sono quasi sempre economiche e che, quand’anche apparissero di natura finanziaria, sono in realtà riconducibili alla debolezza della formula competitiva (si pensi a una ristrutturazione aziendale susseguente a una crisi determinata dalla perdita di uno o più clienti importante, legati da un rapporto di subfornitura). Il problema emerge come finanziario (il mancato pagamento da parte del committente) ma in realtà la vera questione risiede nello scarso frazionamento del fatturato.

L’utilità dell’analisi del fabbisogno finanziario

L’analisi del fabbisogno finanziario delle imprese ci aiuta a ricordare che il flusso principale prodotto dall’azienda è quello del reddito e che si deve lavorare sul conto economico per ritornare a vedere un autofinanziamento positivo.

Se il processo di ristrutturazione aziendale si basasse solo sulla dismissione dei cespiti, pur importante e doverosa, non consentirebbe tuttavia un intervento effettivamente incisivo sulla qualità delle gestione, poiché tutto ciò che ha natura meramente finanziaria è estraneo alla gestione caratteristica ed è, pertanto, visibile solo sotto la riga del risultato operativo.

Ogni ipotesi di ristrutturazione che non sia in grado di intervenire sul conto economico è destinata al fallimento o a rappresentare, molto più banalmente, una strada per la liquidazione dell’impresa.