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Non solo digitalizzazione…

A cura del Prof. Dott. Alessandro Berti

“La crisi da Covid-19 potrebbe (…) aver accelerato un fenomeno di “ricollocamento” della forza lavoro, creando le condizioni affinché i lavoratori scelgano o siano costretti a migrare da settori in difficoltà (come ristorazione e turismo) a settori in crescita (come quelli relativi alla salute e alle nuove tecnologie). La Banca d’Italia ha indagato questo fenomeno per i lavoratori più colpiti dalla pandemia, a partire da quelli delle attività ricettive e della ristorazione. In questi comparti il numero di dipendenti era aumentato del 24% nel periodo 2014-19, contribuendo per circa un sesto alla crescita complessiva dell’occupazione. Nel settore trovavano opportunità di impiego soprattutto le donne (circa la metà dei dipendenti) e i più giovani: le posizioni di lavoro prevedevano basse qualifiche, con contratti brevi e di natura stagionale. A causa del Covid la maggior parte dei lavoratori si è diretta verso aziende che offrono servizi di supporto alle imprese, nel commercio e nella manifattura.” Questo riporta in un bellissimo approfondimento Francesca Barbieri sul Sole 24Ore Plus di oggi («The great resignation»: 4 motivi dietro il boom di dimissioni dei lavoratori italiani).

A parte le considerazioni sul futuro del settore turistico, alberghiero e della ristorazione, che sono contemporaneamente tra i più colpiti dalla pandemìa ma anche i più interessati alla ripresa, non sfugge, a una lettura più attenta dell’articolo, quel che da un po’ di tempo è chiaro in tutti i settori interessati dalla digitalizzazione (banche in primis): il lavoro del futuro o sarà qualificato o non sarà.

Senza necessariamente arrivare alla lieve “esagerazione” di quell’industriale che, sempre ante-pandemìa, vaticinava un sistema economico dove le fabbriche sarebbero state piene di robot e il lavoro umano si sarebbe limitato al controllo dei robot stessi (soprattutto evitando l’interferenza degli uomini con questi ultimi) la strada tracciata appare abbastanza chiara, ed è una strada costellata da una sola parola: competenze, preparazione, formazione.

Esattamente il contrario di quanto mi dicono (un notissimo Collega di una ancora più nota Università italiana parlando insieme qualche giorno fa) sia fatto dalle grandi banche italiane, tutte preoccupate di digitalizzare la qualunque, senza evidentemente curarsi più di tanto del relationship banking, -quello forse sta a cuore a Intesa, non certamente a Unicredit o Montepaschi, matrimonio saltato a prescindere-, con business plan fatti in digitale e non solo: chissà il risk manager e il “rischio di modello” di cui parlano gli Orientamenti EBA…ma chissà anche tutte quelle banche (e sono tante, e sono le più piccole, anche se ora variamente raggruppate) che devono fare i conti con competenze che andavano bene con clienti storici e favorevolmente conosciuti, nonché con la richiesta di garanzie, a prescindere.

Esattamente il contrario, anche qui, di quanto previsto dagli Orientamenti EBA, quando raccomandano la diffusione di una forte cultura del rischio di credito e prescrivono che gli affidamenti si devono erogare solo se ci sono flussi di cassa attesi, non in funzione delle garanzie.

Se questo è quel che si prefigura dal lato dell’offerta di lavoro, perlomeno in ambito bancario, dal lato della domanda poi non meravigliamoci della modesta appetibilità di molte mansioni per giovani che, viceversa, nascono digitali ma hanno bisogno di competenze sul campo. E non le trovano o, quel che è peggio, non sono messi in grado di trovarle, risucchiati anch’essi dalla digitalizzazione, dallo smart working e da salari di ingresso non certo entusiasmanti. C’è molto da lavorare, un lavoro che è prima di tutto culturale: ma bisogna avere voglia di farlo, guardando un po’ lontano e non solo ai profitti nell’immediato.

Trop vaste programme? Je ne sais pas.