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Cartellino rosso

Il lavoro bancario non è mai sembrato particolarmente usurante, forse fino allo scoppio della pandemia, quando, nei primi mesi del 2020, le banche vennero letteralmente prese d’assalto dalla clientela, ansiosa di ottenere prestiti garantiti dallo Stato sotto la coperta offerta dal Fondo Centrale di Garanzia. In quei tempi, quasi eroici, i lavoratori bancari, senza alcuno scudo penale per le operazioni pressoché indiscriminate di prestito effettuate, rimanevano in banca fino a tardi, sepolti sotto una mole di lavoro incredibile, con obblighi di assolvimento dei loro compiti davvero massacranti.

Sia lode e onore a chi quel periodo lo ha passato facendo fino in fondo il proprio dovere.

Tolta questa doverosa eccezione, il lavoratore bancario non assomiglia neppure lontanamente né al protagonista di “Tempi moderni”, né a un infermiere del pronto soccorso di “Grey’s Anatomy” o a un minatore.

È, tuttavia, quello bancario, un lavoratore la cui attitudine si è profondamente modificata nel tempo, come testimoniato anche in johnmaynard.blog dove troverete il tag “lavorare in banca”. Non mi interessano qui le riflessioni sulla diversa considerazione sociale che lo status di lavoratore bancario ha attraversato nel tempo, certamente migliore in passato rispetto al momento attuale, mi interessa ragionare e discutere sulla concezione del lavoro in banca in sé e di ciò che, nel tempo, è divenuto visione dominante. Non seguo il lavoro dei sindacati bancari, non so fino a che punto si siano resi conto dei mutamenti intervenuti negli ultimi anni, delle diverse mansioni svolte dai loro associati: penso di sì, anche se non so fino a che punto tutto ciò si sia trasformato in visione strategica, di lungo termine.

Il lavoratore bancario ha iniziato ad essere, negli anni ruggenti della Unicredit di Alessandro Profumo, soprattutto un venditore: di cosa, non importava, purché vendesse (televisori compresi). Il resto lo ha fatto la digitalizzazione, penetrando sempre più a fondo in ogni tipo di mansione, compresa quelle connesse alla funzione creditizia, ovvero quella più delicata, più rischiosa, più problematica. Con un trade-off sempre più evidente, soprattutto agli sportelli: tutto ciò che è ripetitivo e “internettabile” vede la sostituzione dell’uomo con la macchina. Con vent’anni di ritardo sull’approvazione degli accordi di Basilea 2 e l’introduzione dei rating, gli istituti di credito, tutti, anche quelli teoricamente fondati su un business model improntato alla relazione, hanno progressivamente introdotto automatismi che escludono più o meno esplicitamente passaggi di tipo judgemental e interventi umani, lasciando a pochi individui il compito, in verità ben poco impegnativo, di interpretare gli esiti dell’applicazione dei modelli e delle learning machine.

Poco prima della pandemia ebbi occasione di viaggiare su un Frecciarossa da Milano insieme a un gruppo di giovani neo-assunti di Unicredit; Profumo non c’era più, ma la sua impronta sì, guardando ognuno di loro, per presenza, stile, attitudine, sapevi già cosa sarebbero andati a fare. A vendere.

Dalla rete agli uffici di sede, il passo è breve. Talmente breve che ci sono banche totalmente digitali e che il documento degli Orientamenti EBA parla di “rischio di modello” (sic) mentre forse si dovrebbe parlare di rischio di de-qualifica o, se preferite, di squalifica.

E allora per chi è il cartellino rosso? Perché l’arbitro lo ha estratto? Certamente lo ha estratto per cassieri e per tutti gli addetti di sportello. Ma rischia di estrarlo o lo ha già estratto (e non c’è VAR) anche e soprattutto per il lavoro qualificato, quello che persino gli Orientamenti EBA e la direttiva MCD di fatto richiedevano: insomma, per chi fa crediti.

Con esiti che non voglio prefigurare, ma che non mi piacciono: anche perché spesso, parlando con persone che riterrei titolate e preparate, il lamento è proprio sulla poca digitalizzazione. Incosciente suicidio.