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La lealtà con la tua opera concreta

La “lealtà con la tua opera concreta” è un concetto che non ho inventato io (è su un volantone natalizio di CL di due anni fa, parole di don Luigi Giussani) ma che ho casualmente ripreso in mano qualche mese fa e che, da allora, mi costringe ogni giorno a ripensare al senso di quello che sto facendo, rendendomi conto sempre di più che la questione del significato, del senso delle cose, di quello che facciamo, del perché ci alziamo la mattina è “la questione”. Ed è probabilmente la questione anche della great resignation.

La newsletter della settimana scorsa ce lo ricordava con le parole del grande Giorgio Gaber: “vanno, tutte le cose vanno, vanno, migliorano piano piano” quasi che, appunto per inerzia, il mondo vada avanti senza di noi, a prescindere dal fatto che ci siamo, da come lavoriamo, dalle scelte che facciamo. E le cose, come mi ricordava qualcuno a proposito di un concordato richiesto da un’azienda giunta a fine corsa, finiscono anche.

Torniamo a quel mondo che va avanti.

Noi ci siamo, lavoriamo, scegliamo, lavorando (in banca, per esempio) se dare o non dare quattrini. Cosa vuol dire essere “leali” rispetto a una pratica di fido che concludiamo con un giudizio positivo quando sappiamo che non sarebbe tale? Quando sappiamo che non dovremmo darlo, quel giudizio positivo, ma al contrario suggerire ipotesi diverse, talvolta dolorose? Come ti senti dopo che hai scritto “tecnicamente negativo, ma in considerazione degli storici rapporti intrattenuti e della favorevole conoscenza si propone con parere favorevole”? Come un operaio della Beretta che dopo che ha fatto splendidamente bene il suo lavoro e ha una calibro 22 nuova fiammante da incartare e da mandare negli USA? O come un meccanico che ha avvitato male la gomma di una monoposto al pit-stop e ha fatto ripartire lo stesso il pilota?

O qualcosa non torna?

Sì, certo, bisogna mangiare e portare a casa lo stipendio: “la banca deve lavorare” è la giustificazione che ascolto da 30 anni per ogni nefandezza compiuta in area credito, dove pietose bugie si accompagnano all’ignavia di molti Consigli di Amministrazione (Signore, perdona loro, perché non sanno quello che fanno!). Verosimilmente, con altre considerazioni, molte imprese recano in banca indecenze contabili, per tirare a campare.

Ma c’è anche chi lavora bene, chi si pone problemi, chi vuole studiare, approfondire, chi seleziona bene il credito -e vaglia le persone- chi investe, chi si danna l’anima, chi sa che finché non ha fatto tutto, non ha fatto niente.

Un aforisma passatomi da un giovane universitario, che non ho mai dimenticato e che ho attaccato al frigo di casa mia, recitava così:

Solo i codardi chiedono il mattino della battaglia il calcolo delle probabilità.
I forti e i costanti non vogliono chiedere quanto fortemente né quanto a lungo, ma come e dove abbiano da combattere.
Non hanno bisogno se non di sapere per quale via e quale scopo, e sperano dopo, e si adoperano, e
combattono e soffrono così, fino alla fine della giornata, lasciando a Dio gli adempimenti.

Essere leali con la tua opera concreta, allora, vuol dire che, paradossalmente, non dipende tutto da te, anche se sei impegnato fino in fondo nel particolare di ogni cosa che fai: ma quella cosa che fai, che hai tra le mani, non ti appartiene mai fino in fondo. Per questo devi essere leale con essa, sia edificare una scuola o sia combattere come a Roncisvalle. O come Enrico V, che dopo aver vinto la battaglia di Azincourt[1] chiede che si intoni il Non nobis. Appunto. Lasciando a Dio gli adempimenti.

Ph: Il passo di Roncisvalle di A. Berti

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[1] W:Shakespeare, Enrico V.