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Matrimoni per amore, matrimoni per forza…

Le aggregazioni bancarie? «Io ragiono in termini europei, innanzitutto nell’area dell’euro. Ragionare in logica nazionale è, a mio avviso, non più attuale». La risposta più netta il presidente dell’Abi, Antonio Patuelli, la conserva per il finale, scendendo dal palco dopo una lunga intervista al Festival dell’economia di Trento. Come da sua abitudine, il numero uno dell’associazione bancaria non si sottrae a una riflessione sul risiko del settore che sembra stia (di nuovo) per partire in Italia. «Abbiamo l’unione dei mercati dei capitali, di circolazione di merci, persone e denari e abbiamo una moneta unica. Di conseguenza – ripete più volte – il problema è rafforzare i gruppi bancari in una logica europea in modo che siano competitivi in un mercato che non è solo nazionale».

Così IlSole24Ore del 3 giugno, spiegando il Patuelli-pensiero, quello di uno dei presidenti più invisibili che abbia mai avuto l’ABI. Oddio, non che la categoria faccia qualcosa per distinguersi, ma pensare alla buonanima di Tancredi Bianchi, giusto per non fare nomi, fa riflettere sul diverso spessore dei personaggi. Il dibattito sulle unioni bancarie è sempre aperto e in Europa pour cause, vista la necessità di favorire al massimo la concorrenza per favorire i consumatori.

Ma anche in accademia non ci siamo mai fermati, stretti tra le economie di scala e il pericolo monopolistico o oligopolistico: un contributo del sottoscritto, unitamente a un Collega di Statistica, presentato a un Convegno internazionale a Madrid, stimava la grande dimensione come ideale, per rispetto dei requisiti patrimoniali e non solo. Ma il “difetto” del nostro lavoro, pur pregevole, lo sapevamo già, era la dimensione poco più che quantitativa della nostra indagine, poiché non prendevamo in esame aspetti qualitativi, difficilissimi da rendere trattabili scientificamente o non disponibili.

Rischia di rimanere tale anche l’esortazione di Patuelli, con un’unica certezza: probabilmente avremo altre fusioni e acquisizioni, alcune banche diventeranno sempre più grandi, alcune saranno leader di mercato. Altre, nonostante il blasone (Crédit Suisse o Deutsche Bank insegnano) possono essere dei pessimi competitor, anche in un’ottica meramente à la Milton Friedman, ovvero con l’unico imperativo sociale di creare valore, anzi nemmeno quello, di fare utili per gli azionisti. La realtà, probabilmente, sta nel fatto che la dimensione conta per poter assorbire i costi fissi (compliance, costi regolamentari, costi operativi etc.) di un’attività che rende in maniera diversa da prima; dopo aver visto i bilanci 2021 di certe banche non credo più -non ci ho mai creduto- a quelli che mi dicono che il business bancario non rende. Come si direbbe in termini politically correct, è diversamente redditizio. Una cosa mi piacerebbe: che non si facessero aggregazioni bancarie per vendere più polizze e fare più banca-assicurazione, per stravolgere la missione delle banche e appiattirsi su modelli di business quasi fordisti, ma senza vendere macchine di un solo colore.

A mio parere le banche servono per collegare virtuosamente risparmio e investimenti, e su questo penso ci sia ancora da lavorare.

Altrimenti, e lo dico con rispetto e ammirazione, meglio Goldman Sachs.