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Silicon Valley all’amatriciana.

Mi raccontano questa storia, poi scopro che è vera. Lo spunto della newsletter è l’insistenza della stampa economica sulle start-up innovative, a quanto pare moltissime, sia nel 2021, sia nel 2022, sulla spinta sia del PNRR, sia della impressionante digitalizzazione che ha investito un po’ tutti i settori economici.

Non sarò certamente io a mettere in discussione i risultati raggiunti dalle tante imprese che, ne sono certo, in tutta Italia, stanno mettendo alla prova ingegni, culture, know-how e competenze per crescere, innovare, fare cose mai viste: e ricordo, peraltro con un po’ di imbarazzo, la discussione di laurea di un’eccellente candidata che aveva dimostrato che con una stampante 3D si può fare la pasta fatta in casa, anche contro l’incredulità e i sorrisetti di scherno di qualche collega.

Mi limito a ricordare, memore anche di qualche giornata di lezione fatta di recente, che le piccole e le micro-imprese non sono più solo e soltanto belle, come tutte le mamme del mondo: e che il mondo che prefigura il post-pandemia, prima ancora che il post-guerra Russia-Ucraina, non è un mondo per piccole e micro-imprese (non a caso i self employed sono stati i più colpiti nel 2020 e anni successivi). La digitalizzazione significa anche questo, che lavori che prima erano delegati o comunque lasciati alla subfornitura, diventano lavori integrabili verticalmente all’interno della produzione, con i robot o con qualche altro processo innovativo: in una parola, concentrazione.

Torniamo alle nostre piccole imprese innovative. Ogni volta che c’è una fioritura di partite Iva bisognerebbe procedere con la stessa meticolosità con cui si procede al censimento funerario di quelle che hanno chiuso; viceversa, si procede salutando il tutto con grande gioia, senza chiedersi se, magari, quella nuova impresa altro non è che l’ennesimo “locale”, bar o ristorante che sia.

Vabbè, lasciamo stare, torniamo alle PMI innovative.

La convenienza nella costituzione di una PMI innovativa è fondamentalmente di natura fiscale, e vede incentivi che sono sia di credito di imposta, sia di vantaggi per gli investitori a titolo di capitale di rischio.

Diciamo che un’impresa artigiana, in un settore tradizionale come quello del mobile, decide di creare uno spin-off (la Pmi innovativa) che produrrà le stesse cose che faceva la società originaria, ma con un nome diverso, altro marchio e una presunta maggiore appetibilità nei confronti del mercato e della distribuzione. Si trova un investitore al quale dovrà pur essere stato presentato un piano industriale, si trova anche una banca, che mette sul piatto 300mila € di finanziamento (e anche lei ha visto un piano industriale).

Dopo 4 anni (quattro) qualcuno in banca si ricorda che nel piano era scritto che il fatturato da raggiungere in brevissimo tempo ammontava a 2 mln di € e chiede conto del perché il fatturato sia al massimo salito a 300mila €, generando perdite per complessivi 300mila € nel triennio -100mila € all’anno per 3 anni-, “generosamente” coperte dalla banca finanziatrice.

Risposta: non ci siamo riusciti.

Due considerazioni e una domanda:

se il business principale non funziona, duplicarlo sotto altro nome (e con costi analoghi) non lo renderà migliore.

Seconda considerazione: forse, e sottolineo forse, un business plan fatto bene avrebbe evitato il bagno di sangue.

La domanda: è ancora in bonis? Se sì, perché? Se no, da quanto tempo?

Alla prossima.