skip to Main Content

Per fare un fosso ci vogliono due rive

In un eccellente articolo comparso su IlSole24Ore on line il 30 novembre, Maximilian Cellino, a proposito del segmento della clientela bancaria c.d. affluent afferma, tra le altre cose: “Rappresentano (gli affluent: NdA) il cuore del risparmio italiano, anche se almeno finora non sono stati al centro dei pensieri di chi deve gestire il loro denaro, ma la loro ricchezza potrebbe funzionare da volano per l’intera economia italiana, se veicolata nella direzione giusta. Quella nei confronti della clientela affluent, con patrimoni compresi fra 50-100mila euro e 500mila-1 milione di euro in base alle differenti classificazioni degli operatori, rischia di essere proprio una sorta di ultima chiamata: per il Paese, per il sistema finanziario e anche per loro stessi. Un tesoretto improduttivo. Nei loro portafogli resta custodita oltre la metà del risparmio nazionale, 1.700 su 3.300 miliardi, una fetta cioè superiore a quella riconducibile alla categoria dei risparmiatori di massa e del segmento private della clientela più facoltosa messi insieme e in continua crescita. A ricordarlo è uno studio presentato da Bain & Company in occasione del Wealth Management Forum organizzato da Abi, nel quale si sottolinea anche come proprio in questa particolare fascia il risparmio possa crescere in misura rilevante e più spedita che altrove: con un tasso superiore al 2% medio annuo registrato finora e in accelerazione che possa a breve portare la sua ricchezza complessiva oltre la soglia dei 2mila miliardi.”

La questione è di vecchia data ed è stata oggetto nel tempo di lunghi e accesi dibattiti, fin dai tempi (primi anni ’90) in cui si cominciò a parlare di mercati azionari dedicati alle Pmi, di agevolazioni per l’ingresso in Borsa etc; argomenti, peraltro, che attinevano anche alla morfologia stessa del nostro sistema finanziario, incentrato storicamente sugli intermediari e non sui mercati, come da classica stilizzazione della teoria accademica. Così come altrettanto classica, e molto più scontata, è la narrazione che vuole il risparmio male indirizzato dalle banche, che potrebbero impiegarlo più proficuamente a vantaggio (in questo caso della clientela affluent, una specie di “ceto medio” nelle customer relationship dell’economia bancaria) di investitori ai quali sono destinati rendimenti modesti e/o prodotti mediocri per rendimento.

Bain & Company, come racconta Cellino, dipingono un quadro di extra-rendimenti, o perlomeno tali rispetto a quelli in essere, se solo la gestione che di essi fanno le banche fosse più attiva ed efficiente in senso allocativo. Uscendo dall’accademia, tutte le banche dovrebbero, come fa Illimity Bank per mission aziendale, inseguire Pmi redditizie (e in quanto tali anche rischiose) al fine di avere ritorni sul capitale da girare alla clientela affluent, direttamente o indirettamente.

A prescindere dal fatto che sia tutto da dimostrare che il profilo di rischio di questo genere di clienti sia di tipo medio-alto, come ci hanno testimoniato le cronache, recenti e meno recenti, in merito alla montagna di liquidità detenuta presso le banche, e anche senza voler tirare fuori le asimmetrie informative, le quali, come i poveri, saranno sempre con noi, si continua a guardare come sempre uno solo dei due lati dello scambio finanziario, dove risparmio e investimenti si incontrano, quello dell’investitore. Dimenticandosi, in tal modo, che persino aziende come Barilla e Ferrero, nonché molte altre eccellenze italiane, non sono quotate e che questo non dipende altro che dalla volontà di mantenere stabili ed autonomi assetti proprietari, indipendenti dal capitale esterno; per le Pmi di minori dimensioni questo significa, tuttavia, anche essere impermeabili rispetto ai richiami alla trasparenza, requisito essenziale di una corretta comunicazione finanziaria, che non pare essere al primo punto all’ordine del giorno neppure ora, dopo quasi un semestre di LOM.

Il quesito che ci si dovrebbe porre, allora, non riguarda il lato dell’offerta di capitali, quanto piuttosto quella della domanda, evidentemente non appena di prestiti bancari, ma di capitali di rischio per lo sviluppo. Su questo punto, nonostante gli strumenti che il fintech mette a disposizione delle imprese con le piattaforme di equity crowdfunding, il dubbio è che la scarsa “voglia di capitali” nasconda piuttosto una scarsa trasparenza delle Pmi, peraltro finora assecondata da tante banche, specie se del territorio. Per quotarsi, su qualunque mercato, richiedendo capitale di rischio, occorre avere progetti, condividerli in modo trasparente attraverso un business plan, comunicare risultati, essere disposti al vaglio degli investitori. Ci vuole l’apertura degli assetti proprietari e un capitalismo meno familiare, con una comunicazione finanziaria all’altezza; al momento attuale, forse, un “trop vaste programme”.

Per fare un fosso ci vogliono due rive: appunto.