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Tra smart working e great resignation: quale senso per il lavoro

Il lavoro subordinato svolto in assenza di vincoli spaziali e temporali, il cosiddetto lavoro agile, abbiamo imparato a conoscerlo: forse non sappiamo che non si tratta semplicemente di rifare il calendario delle presenze dei lavoratori ma che occorrono tecnologie adeguate con lavoratori che abbiano competenze trasversali, spazi adeguati e attrezzature (per esempio nelle case di abitazione), una cultura del modo di lavorare che evidentemente cambia, diversa da come la abbiamo immaginata fino ad ora (lo smart working non è il telelavoro).

Si pensi ancora alle proposte, sempre più diffuse, di adozione della settimana corta (4 giorni anziché 5), agli orari flessibili, ad un lavoro che talvolta -mi è capitato di ascoltarlo a più riprese- diviene più intenso e impegnativo proprio perché si lavora e casa e non ci sono orari e le 8 ore diventano 9 o 10.

Tutto bello o quasi. Forse. Non ci sono ancora risultati di ricerche empiriche che abbiano evidenziato miglioramenti della produttività, al di là di generiche dichiarazioni di soddisfazione da parte dei lavoratori: più tempo per gli impegni famigliari, più flessibilità per le lavoratrici madri e padri, possibilità di scelta. Anche se qualcuno comincia a storcere il naso pensando che stando a casa non spendeva nulla o quasi (per lavorare in città dagli affitti cari, per muoversi, per le minori spese…) e invece ora dovrà spendere: così come, paradossalmente, qualcuno comincia a pensare che lavorare a casa è diventato troppo caro, per via degli aumenti del costo dell’energia, riscaldamento, luce, gas etc…e vuole tornare in presenza, ma vicino a casa.

Tra i dubbi dei manager, taluni convinti che si debba tornare a lavorare tutti in presenza, contro altri, decisamente inclini a percorrere fino in fondo il percorso della flessibilità, nessuno o quasi si pone il problema del senso del lavoro nel terzo millennio, ovvero del perché valga la pena alzarsi ogni mattina (quasi: 4 su 5…) non solo per il mantenimento di sé stessi e della propria famiglia, ma per qualcosa di più, la realizzazione di sé stessi.

Che cos’è “la lealtà all’opera delle proprie mani, la precisione nelle cose che fai” (*) se non qualcosa che nasce da un senso del lavoro molto più grande dell’istante, ma che pone l’istante dentro domande molto più grandi? Forse è la domanda inespressa che sta alla base del fenomeno della Great Resignation, una domanda rispetto alla quale il lavoro che è chiesto a ognuno è di andarci più a fondo. A chi dà lavoro, a chi lo chiede, a chi lavora già, a chi decide gli stipendi, ricordandoci, evangelicamente, che l’operaio è degno della sua mercede.

“Com’è bello lavorare sulla tangenziale, con le mani rosse che ti fanno male.” Pino Daniele, Mare.

(*) Mons.L.Giussani.