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Bene, ma non benissimo.

Mi arrivano in questi giorni le prime anticipazioni sui risultati di bilancio delle banche, perlomeno di quelle che conosco, banche locali che hanno aderito a ICCREA o a CCB e che, se possibile, sono (i risultati) ancora più lusinghieri di quelli ottenuti nel biennio precedente. Mi conforta pensare che, nonostante la negligenza di cui sento spesso parlare (da parte di ex-allievi memori di una certa attitudine appresa nelle mie aule) i bilanci suddetti non riflettano quel deterioramento del credito che pure c’è stato -vedi dichiarazioni dell’ex-governatore Ignazio Visco in chiusura di mandato- vuoi perché hanno saputo contenere i corposi accantonamenti richiesti con sempre maggiore urgenza dall’autorità di vigilanza, vuoi perché hanno saputo diversificare la composizione dei ricavi, incrementando quelli da servizi. Bene, bravi, bis: speriamo che tutto questo vada a beneficio della clientela, oltre che dei soci.

Ma mi arrivano anche altre voci, chiacchiere, lamentele, domande del tipo “ma tu quando passi di qua?” o “ma tu non vieni più?”; e poi giù un bel po’ di lamentele. Tante lamentele. Tizio o Tizia che lavoravano in filiale e ora lavorano in sede, Caio o Caia che prima facevano una cosa e adesso ne fanno un’altra, con una costante: non sono contenti. Non è la great resignation, non è gente che riesco a immaginare così; no, è che proprio sono scontenti/e del proprio posto di lavoro, fondamentalmente per due ragioni.

Il clima aziendale e il modo di lavorare.

Da un po’ di tempo non vado a fare lezione in banca (ma ci tornerei di corsa) ma per esserci andato tante volte, so riconoscere il clima aziendale che si respira in un istituto di credito dove si sta bene da quello di uno dove si guarda l’orologio, un po’ alla Fantozzi, per scappare via. Dipende sempre dalle persone, solo da quelle; da chi ha la responsabilità e sta sopra di te, da chi lavora con te, dal senso che tu hai per il tempo che passi lì -e non solo lì- dalla realizzazione di te stesso che riesci a ottenere stando lì. Dipende anche da te, oltre che da quello che ti fanno fare, dipende anche da te oltre che dal tuo capo che ogni tanto vorresti strangolare.

Dipende, in finale, dalla cultura aziendale che respiri ogni giorno, ma anche dal fatto che la vuoi respirare: da quello che vedo, una cultura aziendale che si sta sbiadendo, appassita dietro all’intelligenza artificiale (ma non per colpa dell’AI), incapace di cogliere la differenza tra strumenti e fini, drogata mentalmente dai risultati di questi anni, che vede nei risultati l’unica cosa per cui valga la pena. E per carità, detto da me, che cerco sempre la capacità di reddito e la capacità di rimborso: ma di chi, per fare cosa, per quale bene comune, ammesso che a qualcuno importi ancora.

Questo percepisco nei racconti di chi mi cerca, mi chiama, si confronta con me. Con una differenza, rispetto anche solo a 5 o 10 anni fa; che chi lavora si fa molte più domande rispetto a prima. È dalle non-risposte che nasce la great resignation: forse bisognerebbe parlarne di più.

 

P.S.: ci sono banche dappertutto, anche in Patagonia. Ma ti stancheresti anche lì se “non riesci più a volare”.