skip to Main Content

Co-co-me mai….la Champions League tu non la vinci mai?

Questo coro è ben noto a tutti coloro che non tifano Juventus e, per ragioni opposte, agli stessi tifosi bianconeri, che se lo sentono cantare spesso, soprattutto a San Siro.

La finale di Istanbul, alla quale ho rischiato di assistere (come a quella di Madrid 2010; però dagli ottavi in poi le ho viste tutte) ci ha insegnato molte cose, alcune note, altre un po’ meno; e nonostante si tratti di calcio, ovviamente il tutto vale anche per la gestione d’impresa e per la finanza.

  • Il City, come tutte le squadre inglesi, possiede il proprio stadio: stadio=capannone (e forse non è neppure il più bello, in UK, ha vinto tutti gli ultimi scudetti della Premier League e sabato sera ha fatto il treble);
  • l’Inter, che negli ultimi mesi ha dimostrato di essere la squadra più forte d’Italia, per ora non possiede il proprio stadio; in Italia l’unico stadio veramente moderno e all’altezza di quelli inglesi è quello della Juve: che ha vinto nove scudetti di fila non grazie allo stadio di proprietà ma grazie alla propria bravura (e anche a regole di fair-play finanziarie inventate dalla coppia diabolica Blatter-Platini).

Si può non vincere una finale di Champions ma essere ugualmente un’ottima squadra che porta a casa dei risultati: ahimè, è accaduto all’Inter sabato sera. Si può non essere quotati in Borsa e portare avanti delle eccellenze italiane, come Ferrero e Barilla. Si può possedere o affittare un capannone ma, alla fine, dipende da quello che ci fai dentro, ovvero da come ci “giochi”, dal tuo conto economico e dall’Ebit che ne esce fuori.

La lezione della finale di Champions testé conclusa, tecnicamente ovvero calcisticamente parlando, la lascio agli addetti ai lavori; potrei essere rimproverato di intromissione in altrui discipline e poi ho già in famiglia qualcuno che mi dice, dopo quasi 20 anni di abbonamento a San Siro, che quello che so l’ho imparato da lui.

Nel calcio, come in tutte le attività che hanno un rilievo economico, conta il business model: gli americani lo hanno capito da un pezzo, regolamentando la NBA con il salary cap e comprendendo da subito la grande lezione di Modigliani e Miller.

Ma il calcio non è il basket: dipendesse dai soldi che ci hai messo dentro, sappiamo tutti che PSG e Manchester City, appunto, dovrebbero avere fatto incetta di esemplari della grande “coppa con le orecchie”, quasi da assegnare ex-aequo ogni anno alla squadra più ricca.

A proposito, giusto per ricordare il 2010: nell’anno del triplete usciva questo articolo sul Post, sul quale varrebbe la pena riflettere e che riporto solo in parte per non tediarvi; una cosa mi pare abbastanza chiara. Che i soldi, senza una strategia vincente, non portano da nessuna parte, salvo eccezioni.

La recente vittoria di Sebastian Vettel per la Red Bull Racing nel campionato di Formula Uno è solo l’ultimo e più grande successo sportivo (e, di conseguenza, di immagine) dell’azienda che produce l’omonima bevanda energetica. La politica della società, dettata dal suo fondatore Dietrich Mateschitz, è sempre la stessa: non limitarsi a finanziare una squadra o un atleta appiccicando adesivi su automobili, snowboard e visiere di cappellini, ma entrare prepotentemente nelle discipline sportive, acquistando direttamente i team e curando in prima persona la carriera dei propri campioni. Quando Red Bull compra un team lo rinomina col proprio nome e sostituisce tutta la dirigenza nominandone una nuova. Sceglie su quale atleta puntare e su quale no, selezionandoli sia in base alle qualità sportive che all’immagine, puntando al ringiovanimento.

P.S.: nel frattempo, se la famiglia Zhang vendesse, non ci dispiacerebbe…

P.P.S.: l’ultima Coppa dalle grandi orecchie vinta da un’italiana sta a Milano, nella sede dell’Inter.