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The end

In un articolo apparso sul 24Ore plus riecheggia il grido di dolore di Confcommercio circa la fine e la chiusura di tanti pubblici esercizi nel 2022.

Nell’articolo si presenta il tutto come “la coda lunga del virus”, ma forse è solo colpa del titolista, come al solito, il giornalista intendeva dire altro.

Il fatto è che esiste una mortalità naturale delle imprese, ogni volta, però, presentata come una triste fatalità: dopo 120 anni di attività chiude la storica bottega etc…

Colpisce, soprattutto, che talvolta ci sia una colpa in tutto questo, dello Stato, delle banche, del virus, come se l’impresa fosse un highlander sconfitto dal destino cinico e baro.

Nel correggere la tesi di un valentissimo maturo laureando, la cui carriera non ha bisogno del pezzo di carta (è sacrosanto orgoglio, passione e dedizione, e ce ne fossero), ho potuto esaminare il tema delle start-up innovative e, al contempo, quello della natalità e della mortalità delle imprese. Ora, non c’è nulla che garantisca l’immortalità umana, figuriamoci quella imprenditoriale, così come non c’è nulla che garantisca alle imprese neo-costituite la sopravvivenza ai fatidici primi tre anni (pare che al quinto anno il destino tenda agguati…).

Certo, ci vorrebbe più capitale di rischio: ma se si mette la buona moneta in un pessimo business, questo non basterà a farlo andare bene, con buona pace del financial engineering.

Le imprese sono fatte della stessa pasta di cui siamo fatti noi, buona o cattiva: ma come la nostra stessa vita, non ci appartengono, non ci siamo fatti da soli. Mi è capitato spesso di spiegare il passaggio generazionale come un tema esistenziale, probabilmente senza ricevere occhiate di scherno solo per rispetto: chi amministra un’impresa (qualunque tipo di impresa, anche una banca) deve o dovrebbe sentirsi responsabile di qualcosa che non è suo, che deve o dovrebbe lasciare migliore di come l’ha trovata, o creata. Per i dipendenti, per il territorio, per i figli: impegnati fino in fondo nel particolare, ma liberi dagli esiti, perché gli esiti non ci appartengono.

Ecco, se riuscissimo ad avere questa libertà nel fare impresa, come anche nel giudicarla, nel valutarla, nel lasciarla andare al suo destino, che sia essere comprata o finire e basta, chiudere, appunto, senza accanimento; non sarebbe sbagliato, non sarebbe un di meno: non c’è nulla da difendere, se non il buono che si è fatto. E quello rimane.

 

 

P.S.: ascoltate bene come inizia il pezzo dei Doors.